APPROFONDIMENTO
N. 2 (versione pdf. )
3.
L’utopistica convinzione di individuare un solo valore normale per
l’avviamento.
5.
La prova contraria che il contribuente può fornire secondo la giurisprudenza
Da
più parti ed in diverse occasioni ci sono stati segnalati atteggiamenti di
chiusura da parte dell’Agenzia delle Entrate, riguardo ai criteri di
determinazione dell’avviamento realizzato nelle ipotesi di cessioni
d’azienda ai fini della determinazione della plusvalenza da assoggettare alle
imposte sui redditi. Questo atteggiamento di chiusura si fonda sulla bieca
applicazione di regole stabilite da una disposizione normativa attualmente
abrogata e, comunque, riferita alla determinazione del valore dell’avviamento
da assoggettare all’imposta di registro (articolo 2, comma 4, del D.P.R. n.
460/1996([1]);
atteggiamento che sembra, peraltro, confermato da taluna recente giurisprudenza
di diritto. Giurisprudenza che, tuttavia, a nostro avviso si potrebbe prestare
ad una diversa lettura restringendone la portata a vantaggio
dell’Amministrazione finanziaria. Considerato, dunque, il silenzio normativo
in merito al criterio di valutazione dell’avviamento nell’ipotesi di
cessione d’azienda e, soprattutto, l’atteggiamento dimostrato dagli uffici
dell’Amministrazione finanziaria, il presente approfondimento vuol essere un
contributo utile a quanti si trovano nella condizione di dover gestire un
contraddittorio con gli uffici della stessa Amministrazione nelle ipotesi di
cessioni d’azienda.
Nei paragrafi seguenti si cercherà, quindi, di entrare nel merito delle questioni accennate, che rappresentano una parte delle problematiche da tener conto in materia di cessione di azienda, al fine di poter avere gli strumenti necessari alla gestione di un contraddittorio quanto più costruttivo possibile con l’Amministrazione finanziaria, ovvero, in caso di infruttuosità del contraddittorio, di strumenti utili per affrontare un eventuale contenzioso presso le Commissione tributarie.
La cessione d’azienda è un’operazione che prevede in genere,
rispetto alle altre operazioni di riorganizzazione aziendale per le quali la
disciplina ordinaria riconosce la “neutralità fiscale”, la fuoriuscita dei
beni d’impresa dalla sfera giuridica del cedente e l’ingresso degli stessi
nella disponibilità del cessionario, rendendo così tassabili gli eventuali
plusvalori latenti.
Ai fini dell’imposizione diretta, pertanto, la disciplina della
cessione d’azienda stabilisce che le plusvalenze o minusvalenze fiscalmente
rilevanti siano calcolate con riferimento all’intera azienda, intesa come
“universitas” di beni comprensiva dell’avviamento.
E’ proprio sulla valutazione dell’avviamento che, da tempo, sono sorti numerosi dibattiti relativi
ai criteri utilizzati dall’Amministrazione finanziaria in sede di
accertamento.
Tra questi il principale dibattito attiene alla legittimità degli
accertamenti effettuati ai fini delle imposte sui redditi sulla base di valori
di avviamento accertati ai fini dell’imposta di registro, spesso confermata
anche dalla giurisprudenza prevalente([2]).
Sulla questione occorrerebbe rispondere prioritariamente alla possibilità di
attribuire, sia con norma che con regolamento, un valore di stima
fisso all’avviamento delle imprese, consapevoli del fatto che lo stesso
dipende da innumerevoli variabili di natura oggettiva e soggettiva([3]).
Infatti, gli uffici del registro sono soliti procedere
nell’ambito della cessione di azienda all’accertamento del valore
complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’ avviamento,
partendo dalla disposizione contenuta nell’articolo 51, comma 2, del D.P.R. n.
131/1986 (cosiddetto testo unico dell’imposta di registro) che valuta
l’azienda in base al “valore venale in comune commercio”.
E’ evidente che il citato articolo 51 del D.P.R. n. 131/1986 si limita a comprendere l’avviamento tra i beni dell’azienda, senza fornire alcun elemento o criterio di valutazione dello stesso, oltre al riferimento al valore normale. L’unica norma che faceva riferimento a criteri di valutazione dell’avviamento, e solo ai fini dell’accertamento con adesione, era contenuta nell’articolo 2 del D.P.R. n. 460/1996.
In questo senso, sarebbe già contestabile la possibilità utilizzata
dall’Amministrazione finanziaria di procedere alla determinazione del valore
di avviamento delle aziende attraverso un criterio forfetario, racchiuso in
formule matematiche, indicato in norme peraltro attualmente abrogate tacitamente
(articolo 2, comma 4, del D.P.R. n. 460/1996([4]).
Sulla questione dell’utilizzo della formula matematica([5])
è intervenuta, peraltro, anche la Corte di Cassazione che nella sentenza 21
gennaio 2008, n. 1170 ha precisato che tale formula, come tutti i metodi pratici
di calcolo, non è idonea a rappresentare dati ed elementi che solo un’analisi
approfondita della realtà aziendale può, invece, cogliere.
Pertanto, l’inesistenza di un criterio civilistico di valutazione
dell’avviamento e la forte valenza degli elementi soggettivi ed oggettivi,
comportano inevitabilmente l’insorgenza di dubbi interpretativi in merito,
soprattutto, alla tendenza degli uffici dell’Amministrazione che, nel contesto
della valutazione dell’avviamento in sede di cessione di azienda ai fini della
determinazione della base imponibile dell’imposta proporzionale di registro,
sono portati normalmente a rettificare in aumento detto valore a maggior tutela
degli interessi erariali.
Le ragioni di fondo di tale tendenza, oggetto di analisi nel presente
approfondimento, sono il preludio all’insorgenza di una ulteriore questione
rappresentata dal fatto se i criteri di valutazione di cui al D.P.R. n. 460/1996
che l’Amministrazione continua ad applicare, già contestati dalla
giurisprudenza prevalente ai fini dell’imposta di registro([6]),
possano essere assunti quale elemento di prova nell’ambito degli accertamenti
ai fini delle imposte sui redditi e, in caso di risposta affermativa, con quale
natura.
In altri termini, è cosa diversa procedere alla determinazione di valori
di stima dell’avviamento, indicati dal DPR n. 460/1996 ai fini dell’imposta
di registro quale elemento idoneo a valutare il valore normale dell’azienda
ceduta (articolo 51, comma 2, del DPR n. 131/1997), altra cosa è assumere tali
valori solamente quale elemento di prova di un eventuale accertamento induttivo
ai fini delle imposte sui redditi. In questo senso occorre, poi, valutare se si
è di fronte:
-
ad una presunzione semplice con i requisiti di gravità, precisione e
concordanza (articolo 39, comma 1, lett. c) e d) del DPR n. 600/1973);
-
ad una presunzione semplice senza i requisiti di gravità, precisione e
concordanza (articolo 39, comma 2, del DPR n. 600/1973).
In tale contesto si inserisce l’attuale orientamento giurisprudenziale
prevalente che, con la sentenza della Corte di Cassazione del 18 luglio 2008, n.
19830([7])
ha raggiunto il suo apice, afferma il principio secondo il quale
l’Amministrazione finanziaria è legittimata a rettificare, in via induttiva,
la plusvalenza dichiarata ai fini delle imposte sui redditi, a seguito della
vendita di un’azienda, qualora si rilevi una differenza tra il prezzo indicato
in atti ed il valore definitivamente accertato, per la medesima azienda, ai fini
dell’imposta di registro.
La necessità di arrivare ad ogni costo alla individuazione di un valore normale per l’avviamento generato in caso di cessione d’azienda, ai fini dell’imposta di registro, emerge direttamente dalla disciplina dettata dal D.P.R. n. 131/1986 nella parte in cui fa esplicito riferimento a tale valore nelle ipotesi di cessione d’azienda (articolo 51, comma 2 ). Il semplice riferimento al valore normale ha creato, in primo luogo, un evidente e concreto imbarazzo nell’Amministrazione finanziaria, dal momento che si tratta di un valore molto soggettivo e sfuggente alla cui determinazione partecipano molteplici elementi di natura sia oggettiva che soggettiva, fra i quali i rischi inerenti al tempo e al luogo dello svolgimento dell’attività, oltre ai suoi possibili sviluppi futuri.
Pertanto, a fronte del silenzio normativo in merito alla valutazione dell’avviamento, l’Amministrazione finanziaria ha dato vita ad una propria linea interpretativa basata su rigidi criteri matematici, che definiscono il valore dell’avviamento applicando un astratto “coefficiente reddituale” al volume d’affari conseguito dall’azienda negli ultimi esercizi.
L’utilizzo in via esclusiva di tali criteri matematici ha comportato, in definitiva, la nascita della presunzione che se si è in presenza di un reddito sia pur minimo, esiste sempre un avviamento positivo([8]). Si tratta, secondo la dottrina prevalente, di una presunzione legale assoluta, dato che non è ammessa alcuna prova contraria, salva la tutela giurisprudenziale. Sulla liceità di tale presunzione la stessa dottrina ha manifestato perplessità, dal momento che si trascura in tal modo la possibilità di valutare adeguatamente le reali condizioni di mercato dell’azienda e la posizione sul mercato della stessa, catastalizzandone, invece, il valore, con il ricorso a un moltiplicatore immotivato. Si passa, dunque, da una tassazione del valore venale a una tassazione matematica([9]).
Anche la giurisprudenza è dell’avviso che l’utilizzo di criteri matematici dia luogo ad un valore empirico avulso dalla realtà aziendale, precisando che nessuna formula matematica sia in grado di cogliere il valore dell’avviamento, basti solo pensare che per determinare il valore di avviamento di un’azienda si dovranno considerare i redditi futuri e non quelli passati([10]).
Da quanto emerge è possibile, quindi, sostenere che la valutazione dell’avviamento sulla sola base della redditività media degli ultimi tre periodi d’imposta sia soltanto uno dei tanti criteri impiegati dall’Amministrazione finanziaria per determinare l’eventuale maggior valore di avviamento, di certo non è un elemento sufficiente per giustificare una maggiore imposta([11]).
Pertanto, per la cessione di aziende l’ufficio del registro deve considerare il valore corrente dell’avviamento al netto delle passività e procedere ad un giudizio di congruità sul valore dichiarato dalle parti ed eventualmente rettificarlo, qualora ritenuto inferiore a quello venale di commercio, utilizzando quali parametri di confronto anche le scritture contabili, gli atti aventi data certa e le risultanze di precedenti ammortamenti, ispezioni e verifiche concernenti l’imposta sul valore aggiunto. Inoltre, l’ufficio è tenuto ad indicare nella motivazione dell’avviso di accertamento le ragioni che lo hanno indotto a rettificare il valore dell’avviamento, garantendo così il diritto del contribuente alla difesa.
Come anticipato in premessa, una cosa è dire che i criteri adottati dall’ufficio sono idonei a rappresentare il valore normale dell’avviamento, altra cosa è sostenere che gli stessi possano essere assunti quali elementi di presunzione semplice in un eventuale accertamento induttivo ai fini delle imposte sui redditi.
E’ proprio il riferimento alla natura giuridica delle presunzioni e alla capacità degli uffici di collegare nell’ambito della sequenza argomentativa tutti gli elementi necessari per risalire da un fatto noto ad un fatto ignoto che l’Amministrazione pone in essere la propria attività di accertamento.
E’ evidente che nell’ambito dei poteri istruttori, l’Amministrazione finanziaria ha un potere discrezionale limitato, proprio in base alla natura della presunzione connaturata dal collegamento tra fatto noto e fatto ignoto. Nell’ambito dell’accertamento delle imposte sui redditi, infatti, (stessa norma la ritroviamo anche nell’ambito dell’imposta sul valore aggiunto)([12]), la possibilità di utilizzare una presunzione viene diversificata, secondo il grado di fondatezza o meno della presunzione stessa, il cui giudizio è comunque riservato al giudice speciale. Occorre, infatti, ricordare che in diritto tributario la presunzione semplice (cfr. articolo 2729 c.c.) può anche essere priva dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, tuttavia in questo caso può essere utilizzata solamente nei casi elencati proprio dall’articolo 39, comma 2, del DPR n. 600/1973.
In particolare, l’Amministrazione finanziaria può ricorrere:
- all’accertamento analitico del reddito d’impresa (ex art. 39, comma 1, lett. c) e d), e art. 40 del D.P.R. n. 600/73) solo in presenza di fatti certi ovvero di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti;
- all’accertamento induttivo “c.d. puro” (ex articolo 39, comma 2, del D.P.R. n. 600/73) sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti ed avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti necessari nell’ipotesi di accertamento analitico.
Assodato che l’Amministrazione finanziaria ha comunque
dei poteri discrezionali, quello che occorre ora stabilire è se l’utilizzo
dei parametri validi per l’imposta di registro per accertare
l’insufficiente valore dell’avviamento rientrino nella prima o nella
seconda tipologia di presunzione. In altre parole, occorre valutare se i criteri
matematici utilizzati nell’ambito dell’imposta di registro possano assumere
sempre i connotati di gravità, precisione e concordanza.
Al riguardo per rispondere a questa domanda appare sufficiente richiamare
il paragrafo n. 2, laddove viene messo in evidenza che i criteri per la
determinazione dell’avviamento sono diversi e con componenti anche di natura
soggettiva, che difficilmente possono essere inquadrati in una o più formule
matematiche, questo sarebbe già sufficiente per sostenere che la presunzione
debba essere vista priva dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
Peraltro, su questo versante si è espressa autorevole
giurisprudenza, laddove in modo più o meno chiaro, ha inquadrato questa
tipologia di presunzione nell’ambito dell’articolo 39, comma 2, del DPR n.
600/1973. A tale proposito il filone interpretativo prevalente (§ par. 1),
rappresentato da ultimo dalla sentenza della Corte di Cassazione del 18 luglio
2008, n. 19830, richiamata di recente dalla sentenza della Suprema Corte del 22
dicembre 2009, n. 27019([13]),
effettua proprio questa distinzione, sottolineando che la presunzione di cui si
parla, non può che qualificarsi come indizio, cioè come presunzione priva dei
requisiti di gravità, precisione e concordanza. Questa definizione si ricava,
però, in modo indiretto, attraverso l’individuazione delle contro deduzioni
che può portare il contribuente, per confutare nello specifico la stima
dell’avviamento attribuitagli dall’ufficio locale delle entrate. La Suprema
Corte ritiene, infatti, che la differenza tra il prezzo incassato e il valore di
mercato sia sufficiente per attivare la “presunzione
di corrispondenza” del primo elemento al secondo, legittimando, da un lato, gli uffici dell’Amministrazione
finanziaria ad emettere avvisi di accertamento di presunte maggiori plusvalenze
derivanti da cessioni di aziende sulla base dell’accertamento di valore
effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro, e, dall’altro,
riconoscendo al contribuente l’onere probatorio per superare, «anche con
il ricorso a elementi indiziari», tale presunzione di corrispondenza.
Pertanto, il contribuente può dimostrare di aver venduto ad un prezzo inferiore
rispetto al valore di mercato del bene([14]),
impostando la propria linea difensiva facendo ricorso anche ad elementi
indiziari.
E’ evidente, pertanto, che secondo questa linea interpretativa la possibilità di utilizzare i parametri già previsti in materia di imposta di registro, per rettificare la misura dell’avviamento ai fini delle imposte sui redditi, può avvenire solamente nelle ipotesi nelle quali è possibile applicare l’articolo 39, comma 2, del DPR n. 600/1973. In altre parole, tale possibilità è circoscritta alle ipotesi in cui:
- il reddito d’impresa non è stato indicato nella dichiarazione;
- dal verbale di ispezione risulta che il contribuente non ha tenuto o ha sottratto all’ispezione una o più scritture che era obbligato a tenere o se le scritture medesime non sono disponibili per causa di forza maggiore;
- le irregolarità formali, le omissioni, falsità e inesattezze delle scritture risultanti dal verbale d’ispezione sono così gravi, ripetute e numerose da rendere inattendibili secondo i criteri di cui al D.P.R. 570/1996, le scritture stesse nel loro complesso.
Giova sottolineare che, nello specifico, il caso affrontato dalla Corte di Cassazione nella sentenza del 18 luglio 2008, n. 19830, riguardava un contribuente che aveva omesso di indicare il valore delle rimanenze e che, più che altro, non aveva mai assolto all’incombenza di esibire il relativo registro.
Tuttavia, una lettura semplicistica di questo filone giurisprudenziale che si evince dalla sentenza in commento della Cassazione, sostenuto dal richiamo ad alcuni precedenti giurisprudenziali riportati nella stessa sentenza([15]), ha dato il via alla notificazione di accertamenti presuntivi basati sull’efficacia automatica della definizione di un maggior valore ai fini dell’imposta di registro valida anche sul versante delle imposte sui redditi. E’, tuttavia, evidente che i contribuenti hanno comunque la facoltà di proporre ricorso avverso le contestazioni dell’Amministrazione finanziaria, qualora la medesima contestazione non sia inquadrata nell’ambito:
- dell’accertamento analitico del reddito d’impresa (ex art. 39, comma 1, lett. c) e d), e art. 40 del D.P.R. n. 600/73), dove è possibile rettificare il corrispettivo della cessione dell’azienda contabilizzato solo in presenza di altri fatti certi ovvero di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, che risultino aggiuntive rispetto all’accertamento definito ai fini dell’imposta di registro e che provino l’effettivo scostamento tra il corrispettivo realizzato e quello contabilizzato;
- dell’accertamento induttivo (ex articolo 39, comma 2, del D.P.R. n. 600/73), qualora vi siano le condizioni, posto che in tal caso il reddito è determinato sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti, utilizzando il dato relativo alla definizione del valore del bene ai fini dell’imposta di registro come elemento utile da integrare con elementi aggiuntivi, per accertare un maggior corrispettivo rispetto a quanto contabilizzato, poiché in tal caso l’Amministrazione può avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti necessari nell’ipotesi di accertamento analitico.
Con riferimento all’accertamento induttivo può, quindi, verificarsi che una fattispecie presuntiva sia ritenuta legittima qualora utilizzata nell’ambito dell’accertamento induttivo “puro”, che richiede appunto una presunzione con una ridotta forza probatoria.
Resta, allora, da stabilire se la sentenza in commento riconosca all’Amministrazione finanziaria la possibilità di adagiarsi sul predetto differenziale prezzo-valore, per sostenere la propria linea accusatoria, senza indicare le ragioni per le quali, a partire dal differenziale medesimo (fatto noto), è probabile che si sia verificata la fattispecie di occultamento (fatto ignoto).
Tale osservazione, sollevata da autorevole dottrina([16]), richiederebbe da parte dell’Amministrazione, nell’ipotesi sopra indicata, lo svolgimento di attività istruttorie ad essa riconosciute ex lege o quanto meno il confronto con il contribuente per indicare le ragioni che hanno condotto a stabilire altamente probabile, nel caso specifico, il verificarsi della fattispecie d’evasione.
Come già
precedentemente affermato la sentenza n. 19830/2008 della Corte di Cassazione ha
riconosciuto fondato l’accertamento induttivo operato dall’Amministrazione,
nel caso di specie, salvo prova contraria
del contribuente.
Con riferimento all’espressione “salvo prova contraria”
autorevole dottrina([17])
ha precisato come la Suprema Corte abbia fatto uso in maniera sbrigativa di tale
locuzione, intendendo con essa una coincidenza di fondo con la clausola “salve
circostanze particolari”, dal momento che non si può avere una inversione
dell’onere della prova in senso proprio senza fonte legale. Tale assunzione
trova, infatti, conferme nell’interesse dello stesso contribuente di
dimostrare le particolari circostanze che rendono verosimile una vendita
d’azienda ad un prezzo inferiore rispetto al valore venale in comune
commercio. D’altro canto la sentenza, però, non specifica quali possano
essere i mezzi utilizzabili dal contribuente per confutare la presunzione di
corrispondenza del corrispettivo incassato con il valore di mercato accertato in
modo definitivo ai fini dell’imposta di registro.
Sulla questione interviene, invece, la sentenza n. 4057/2007 della
Suprema Corte che, richiamando la sentenza n. 16700/2005, individua nelle
scritture contabili o in altri elementi gli strumenti a disposizione del
contribuente per superare la suddetta presunzione.
La valenza delle scritture contabili riveste un ruolo decisivo
nell’ambito della cessione d’azienda, soprattutto per i soggetti in
contabilità ordinaria, per le caratteristiche proprie di tale operazione che
richiede la formalizzazione in una scrittura autenticata, ed è soggetta a
registrazione in termine fisso. Proprio questo elemento suffraga la lettura del
filone giurisprudenziale prevalente che porta a ritenere che l’accertamento è
da inquadrare nell’ambito dell’articolo 39, comma 2, del DPR n. 600/1973.
Appare evidente, quindi, che questa lettura dell’orientamento
giurisprudenziale sempre più prevalente, lasci margini di spazio alla difesa
del contribuente. Al riguardo va, però, segnalato che a tutt’oggi la
Cassazione non è ancora intervenuta in controversie dove il contribuente abbia
fornito prove contrarie.
Questi elementi possono essere assunti per ridurre il potere di forza che
attualmente gli uffici dell’Amministrazione pensano di avere data la
semplicistica lettura dell’orientamento giurisprudenziale favorevole, che li
porta ad assumere nei confronti dei contribuenti un atteggiamento di chiusura,
dal momento che in sede di contraddittorio evitano di riconoscere ai
contribuenti la prova contraria fornita sulla base delle scritture contabili.
Una possibile soluzione alla questione, come accennato nel precedente
paragrafo, potrebbe essere ricercata nella volontà degli uffici di offrire,
proprio a sostegno della presunzione semplice di corrispondenza del prezzo al
valore, maggior spazio al contraddittorio con il contribuente, così da valutare
le circostanze che rendono plausibile la vendita sotto il valore di mercato. Con
il contraddittorio, infatti, gli uffici potrebbero maggiormente avvalorare la
presunzione di corrispondenza del prezzo al valore e tener in conto gli elementi
emersi da esso o da altre iniziative istruttorie([18]).
Il contribuente, dal canto suo, deve impostare la propria difesa facendo leva su
elementi indiziari.
A tale proposito è necessario fornire documentazione alternativa alle
scritture contabili, aventi ad oggetto sia elementi soggettivi del venditore,
quali ad esempio la salute, l’età, le motivazioni familiari, etc., sia
elementi oggettivi attinenti all’azienda in questione, per dimostrare le
motivazioni, meglio ancora se asseverate da una perizia da allegare all’atto
di cessione, per le quali l’azienda viene ceduta ad un prezzo inferiore
rispetto al suo valore di mercato([19]).
Ancora meglio se, in sede di contraddittorio, si riuscisse a fornire
oltre alle scritture contabili anche copia della documentazione bancaria
personale del venditore e dell’acquirente relativa al periodo antecedente e
susseguente la formalizzazione del contratto di vendita dell’azienda.
a cura di
Claudio Carpentieri - Ufficio
Politiche Fiscali
(GA/ga/cessione_azienda)
[1] Si tratta, infatti, di un regolamento che fa riferimento all’articolo 2-ter del D.L. 30 settembre 1994, n. 564, abrogato dall'art. 17, comma 1, lett. b), D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, contenente le nuove disposizioni in materia di accertamento con adesione.
[2] Si richiamano, senza pretesa di esaustività: Cass. 22 marzo 2002, n. 4117, con commento di G. Sepio, Limiti alla efficacia dell’accertamento tra valore venale dei beni e corrispettivo pattuito, in “fisconline” - banca dati tributaria; Cass. 26 agosto 2002, n. 15202; C.T. Reg. Lazio 25 gennaio 2007, n. 199.
[3] Rinviando alla letteratura economico aziendalistica (cfr. D. Amodeo, Ragioneria generale delle imprese, Napoli, 1988, pagg. 839 e seguenti) per una più ampia disamina dei criteri di valutazione delle aziende, è comunque importante sottolineare che il valore di una azienda non dipende solamente dalla tipologia e dalla quantità dei beni che sono in essa presenti, ma dipende anche dalla capacità dell’azienda di funzionare e di produrre utilità economiche.
[4] Si tratta, infatti, di un regolamento che fa riferimento all’articolo 2-ter del D.L. 30 settembre 1994, n. 564, abrogato dall'art. 17, comma 1, lett. b), D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, contenente le nuove disposizioni in materia di accertamento con adesione.
[5] La formula matematica indicata nell’articolo 2, comma 4, del D.P.R. n. 460/1996, ancorché la norma non abbia più efficacia essendo stata superata dal D.Lgs. n. 218/97 (vedi nota precedente), prevede che il valore di avviamento delle aziende sia determinato nel seguente modo: Avviamento = Percentuale di redditività x Media ricavi ultimi tre anni x 3.
[6] Si riportano le più recenti sentenze sulla materia: Cass., 13 gennaio 2006, n. 613; C.T. Prov. Roma 2 marzo 2006, n. 50; C.T. Reg. Lazio 25 gennaio 2007, n. 205; C.T. Reg. Lazio 22 aprile 2008, n. 34; Cass. 23 luglio 2008, n. 20280.
[7] Si riportano, senza pretesa di esaustività, le sentenze della Corte di Cassazione che si rifanno al principio affermato nella presente sentenza: Cass., Ord. 30 settembre 2009, n. 21020; Cass. Sent. 22 dicembre 2009, n. 27019 ; Cass. Sent. 4 dicembre 2008, n. 28791 ; C.T. Reg. Roma 23 ottobre 2008, n. 94.
[8] Cfr. A. Sacrestano e G. Scifoni, La valutazione dell’avviamento ai fini dell’imposta di registro: il problema dei metodi matematici di valutazione, in “Il fisco”, n. 3/2002, pag. 1-375.
[9] Cfr. Si vedano S. Callipo, Avviamento: analisi dei criteri di valutazione introdotti dal D.P.R. n. 460/1996, in “il fisco” n. 46/1996, pagg. 11169 e seguenti; C. Caumont Caimi, La valutazione dell’avviamento ai fini dell’imposta di registro, nota a sent. Comm. Trib. Prov. Di Latina, Sez. II, 11 febbraio 1997, n. 359, in “Diritto e pratica tributaria”, 1998, II, pagg. 654 e seguenti; A. Leopardi, Valutazione dell’avviamento d’azienda – Sintesi della problematica e stato dell’arte, in “Bollettino tributario”, n. 17/2001, pagg. 1212 e seguenti.
[10] Cfr. Comm. Trib. Prov. di Latina, Sez. II, dec. 1° luglio 1997, n. 359; Comm. Trib. Centrale, Sez. XXI, dec. 21 giugno 1990, n. 4857; Comm. Trib. di I° grado di Sondrio, Sez. IV, 14 marzo 1996, n. 13.
[11] Si vedano: G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Padova, 1997, pag. 464 e pagg. 494-496; A. Fantozzi, Diritto tributario, 2° ed., Torino, 1998, pag. 785; R. Lupi, Diritto tributario – Parte Speciale, 4° ed., Roma, 1996, pagg. 396 e seguenti.
[12] Si tratta dell’articolo 54, comma 3, e dell’articolo 55, del D.P.R. n. 633/1972.
[13] Senza entrare nel merito dei vari orientamenti giurisprudenziali che si sono alternati nel tempo in merito alla questione di legittimità degli accertamenti effettuati ai fini delle imposte sui redditi sulla base dei valori di avviamento accertati ai fini dell’imposta di registro, in questa sede preme focalizzare l’attenzione sull’ultimo orientamento giurisprudenziale, avvalorato dalla commentata sentenza n. 19830/2008 della Suprema Corte.
Come già anticipato, la predetta sentenza non è né la prima né ultima pronuncia della Cassazione, (basti pensare che nel testo sono citate altre sentenze), a ribadire il principio di diritto che legittima l’Amministrazione finanziaria a rettificare in via induttiva il reddito dichiarato, in base ai maggiori valori di avviamento accertati ai fini dell’imposta di registro. Spetterebbe, invece, al soggetto cedente la prova della corrispondenza tra il prezzo convenuto in atto e quanto effettivamente incassato (cfr. Cass. n. 21020/2009; Cass. n. 12899/2007; Cass. n. 4057/2007).
Ciò premesso, è importante sottolineare come la mancata produzione in giudizio di prova sul valore di mercato dei beni ceduti sia stata la principale causa in base alla quale la Cassazione, anche nella sentenza in commento, ha respinto l’appello del contribuente.
Non è, infatti, un caso che le sentenze citate nel presente lavoro e fino ad oggi decise abbiano avuto ad oggetto controversie in cui la Corte di Cassazione ha riconosciuto validi i criteri di valorizzazione dell’avviamento utilizzati dagli uffici, a fronte di situazioni particolari o caratterizzate dalla totale assenza di produzione in giudizio di prove contrarie.
[14]
Il riferimento al bene inteso come “azienda”,
utilizzato nel corso della seguente trattazione, trova la sua ragione di fondo nell’articolo 2555 del codice
civile che definisce l’azienda come “il
complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio
dell’impresa”.
[15] Cfr. Cass. Sentenza 28 ottobre 2005, n. 21055; Cass. Sentenza 22 marzo 2002, n. 4117; Cass. Sentenza 1° giugno 2007, n. 12899.
[16] Cfr. Mauro Beghin – Il Commento alla Sentenza n. 19830/2008, in Corriere Tributario n. 35/2008, pag. 2851.
[17] Cfr. Alberto Marcheselli, “Valore di registro dell’azienda, prova della plusvalenza e difesa del contribuente” – Commento alla Cass., Ord. 22 dicembre 2009, n. 27019 – in Corriere Tributario n. 9/2010, pag. 681.
[18] Cfr. Alberto Marcheselli, “Valore di registro dell’azienda, prova della plusvalenza e difesa del contribuente” – Commento alla Cass., Ord. 22 dicembre 2009, n. 27019 – cit., loc. ult. cit.
[19] Cfr. Marco Gallea – Cass., sent. n. 19830 del 18 luglio 2008: il maggior avviamento concordato per l’imposta di registro dall’acquirente di azienda origina maggiore plusvalenza per il cedente? – in “Il fisco” n. 35 del 22 settembre 2008.